Tra gli stili di Wushu (termine cinese composto dai caratteri Wu – militare, marziale e – Shu – tecnica, arte, metodo, tattica – quindi traducibile come “arte marziale”) classificati come “interni”, troviamo lo Yiquan (da Yi – significato, senso, intenzione e – Quan – pugno, pugilato – quindi “il pugilato dell’intenzione”), noto anche come Dachengquan (da Da – grande –, Cheng – riuscire, completare, raggiungere, fondare, stabilire – e Quan – pugno, pugilato – quindi “il pugilato della grande riuscita”, riuscita nel senso di “efficacia”). Per “interni” intendiamo quegli stili che privilegiano il controllo fisico e mentale, sviluppato con opportune metodiche, per ottenere movimenti armonici, flessibilità ed equilibrio da opporre alla forza dell’avversario, neutralizzandola. Sono invece “esterni” quegli stili marziali che enfatizzano lo sviluppo della potenza, della velocità e (in alcuni di essi) di capacità “acrobatiche”.
Nei metodi di allenamento di molte arti interne, e dello Yiquan in particolare (ma anche di alcuni stili esterni: si tratta di un sistema “trasversale”), troviamo il Tuishou (da Tui – spingere, promuovere, dedurre, proporre, eleggere e – Shou – mano, capacità, abilità, trucco – quindi “spingere con le mani” o “abilità nello spingere”).
Spesso i marzialisti si sono chiesti se il Tuishou sia un insieme di metodiche direttamente applicabili alla difesa personale (cioè una vera e propria forma di combattimento, tipo “parata/attacco”) o, invece, un insieme di esercizi che enfatizzano il lavoro sul baricentro fisico, proprio e dell’avversario, da trasferire in modo indiretto, dopo una opportuna introiezione, nelle tecniche di difesa personale o di combattimento libero sportivo.
Alcuni autori propendono per questa seconda interpretazione. In particolare Stefano Agostini, nel suo libro “Kung Fu Yi Quan” (Edizioni Mediterranee) afferma che il Tuishou “non è combattimento”, bensì un esercizio per “sviluppare precise abilità”, che posso così riassumere (basandomi su quanto da lui scritto):
– la capacità di utilizzare bene il proprio peso;
– la capacità di sviluppare la forza elastica;
– la capacità di proteggere la propria “linea centrale” e di attaccare, con il Fali (da Fa – mandare, inviare, sviluppare – e Li – forza, potenza – quindi “sviluppare la forza” o “inviare la forza”) quella dell’avversario.
Anche Wang Xuanjie, nel testo “Dachengquan” (Luni Editrice), citando lo stesso “codificatore dello stile” Wang Xiangzhai, afferma che lo scopo dello “spingere con le mani” è “proteggere la propria parte centrale e controllare quella dell’altro”, aggiungendo (sintetizzo) che il Tuishou è lo Shili (da Shi – praticare, esercitare, eseguire, mettere in pratica – e Li – forza, potenza – quindi “esercitare la forza”) eseguito da due persone.
Di diversa opinione sembra essere, invece, Yao Chengguang, che nel capitolo dal titolo “Principi di allenamento del tui shou dell’Yi Quan”, inserito nel testo “Yi Quan” (Luni Editrice, libro principalmente basato su scritti di Wang Xiangzhai), parla espressamente del Tuishou come di “una forma di combattimento usata alla distanza corta”. Quando ci si trova, in uno scontro, a contatto con le braccia, è importante, per Yao, la consapevolezza del “vuoto e del pieno”, del “forte e del debole” nell’avversario, per riuscire a controllarlo e ad attaccarlo efficacemente. Questo lo si impara (e lo si attua) attraverso il Tuishou che è un “ausilio del Sanshou” (da San – allentarsi, andare in pezzi, sparso – e Shou – mano, capacità, abilità, trucco – quindi “mani allentate”, termine usato per indicare il “combattimento libero”).
Kenji Tokitsu, nel libro “Shaolin Mon ®” (Edizioni Grafica Comense), pur riferendosi anche ad altre tecniche e metodi di allenamento (interno), fornisce del Tuishou una interpretazione articolata e estremamente interessante, descrivendo le mani e le braccia come “antenne” (similitudine che io ho sentito utilizzare spesso anche nel Wing Chun) che devono “captare” l’espressione energetica dell’avversario, portandola nel proprio Dantian (da Dan – farmaco, elisir – e Tian – campo, terreno – quindi “campo dell’elisir”) che lui chiama, in giapponese, “Tanden” (è il “centro” del corpo, quattro dita sotto l’ombelico, in profondità). Il proprio braccio deve avvolgersi attorno a quello dell’avversario “come una corda” (espressione utilizzata anche da Wang Xuanjie, nel testo citato più sopra). A contatto con l’avversario, l’energia personale viene diretta a partire dal “Tanden”, con la potenza globale del corpo che parte dai piedi e arriva a braccia e mani.
Personalmente ritengo che il Tuishou sia, principalmente, un metodo per sviluppare abilità (e su questo concordo in pieno con Agostini). Però se le mani vengono, chiuse a pugno, “affondate” per colpire la linea centrale dell’avversario, dopo aver “avvitato/avvolto” le braccia attorno alle sue per neutralizzarne l’azione e per penetrare all’interno della sua guardia, è chiaro che già si è entrati in un terreno diverso, che è quello del “combattimento a corta distanza” (come afferma giustamente Yao). Il “problema” del Tuishou sta, per me, nella diffusione del suo impiego sportivo (in competizioni ad hoc): la finalizzazione diventa, in quel caso, “deviata” rispetto all’acquisizione di abilità biomeccaniche e intuitive precise e strumentali al combattimento reale, perché è solo indirizzata alla totalizzazione di un dato “punteggio” (si diventa “abili” in quello e nulla più).
Per concludere vorrei ricordare che il Tuishou viene anche utilizzato come tecnica per migliorare il benessere. In questo caso l’operatore esegue, lentamente, le “rotazioni di base”, col proprio avambraccio a contatto con quello del cliente (che sarà, evidentemente, in deficit di Qi, e potrà restare seduto o anche sdraiato) e si avrà un “trasferimento di Energia” analogo a quanto avviene con alcuni metodi di Qigong (o con l’Yifa, di cui ho accennato in un articolo precedente).
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